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:: togliere il superfluo ::

(pubblicato il 08/07/2006)

 

Abbiamo sperimentato, che durante il combattimento in palestra, un buon 8o% delle tecniche che portiamo, non possiedono effettive caratteristiche nè di efficenza, né tantomeno di efficacia.
Sappiamo che la chiave di evoluzione del nostro karate, sta nel togliere il superfluo, nonostante ciò, nel momento del combattimento sembra che il nostro sempre presente e talvolta grossolano ego, debba essere soddisfatto; troppe volte ci basta arrivare al bersaglio prima dell’avversario anche attraverso traiettorie improponibili.
Stiamo dedicando attenzione nel portare gli attacchi senza preavviso motorio, con la mente vuota, il corpo in congrua tensione ma senza contrazioni, le articolazioni morbide e nervose.
Un attacco senza presegnale, difficilmente si può parare; è bene ricordare che, più si è motivati, più si è aggressivi e più si usano preavvisi motori.
Siamo arrivati alla considerazione che spesso, quando le nostre azioni vengono eluse, anzichè cercare i nostri errori, ci identifichiamo con l’avversario e cerchiamo di perfezionare gli esercizi per diventare altrettanto bravi.
In questo processo di identificazione c’è una sovrastima di sè (il mio colpo era perfetto) e dell’avversario (è riuscito a evitare il mio attacco perfetto).
Rapportandoci così, perderemo tempo prezioso senza trovare la vera causa della non riuscita dell’azione. A volte sembra di voler lavorare quasi alla ricerca della difficoltà per evitare l’efficacia... e giustificare l’assiduo allenamento.
Abbiamo visto nelle ultime lezioni come usare movimenti che appaiono rituali di sottomissione, per generare invece energia e mascherare l’attacco; credo che il lavoro che ci apprestiamo a sviluppare si possa incontrare ormai solo nel nostro Dojo; il nostro è veramente un laboratorio in continua evoluzione, e questo non è solo merito di chi insegna, ma in egual misura è merito del nocciolo di praticanti che sempre sta al passo, che sempre è presente, che rappresenta il carburante della visione un po' vulcanica che ho del karate.
Un tempo le mie lezioni, erano all’insegna del sovraffaticamento: kihon ripetuti, kata eseguiti a ritmi sostenuti, combattimenti dinamici e continui.
Fino ad un certo livello apportano cose positive, ma se quello diventa lo standard, scompare ogni consapevolezza, ci si trova nel ruolo di praticanti accaniti impossibilitati ad accedere ad uno studio profondo.
In quegli anni, la mia visione era alquanto rigida.
Ero affascinato dall'interpretazione definiamola energetica che certa letteratura marziale dà al karate e, quindi anche al praticante, ma devo essere sincero: ...non capivo...come poteva un guerriero votato alla morte, perdere tempo nella meditazione? Non era forse meglio dedicare quel tempo a forgiare il corpo oppure al maneggio della spada????. Quale era il tangibile significato di mente vuota? Letteratura e cinematografia marziale, non parlano d’altro... ma ..... ma alla fine rinunciavo perché non capivo, ed oggi so che non potevo; ed allora tornavo a razionalizzare ponendo così dei netti confini tra ciò ritenevo credibile e ciò che sconfinava nel metafisico e quindi nell'opinabile.



 

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